Ma quale tiro fortunato, e’ tutta la carriera che li metto, dovrebbe leggere un giornale ogni tanto
Spesso i numeri posso ingannare le persone. Spesso quando guardiamo i box score ci soffermiamo troppo a leggere quanti punti ha fatto Durant, quanti Curry, quanti non né ha fatti Kobe. I numeri dicono tutto e non dicono niente di un giocatore NBA. Oggi vi voglio raccontare la storia di un giocatore che di record importanti né ha infranti e anche parecchi, ma spero che la maggior parte di voi non sottovaluti il fatto che parleremo di un giocatore che nel corso della sua carriera ha tenuto una media di appena 7 punti, 4.8 rimbalzi e 2.1 assist, perché ricordatevi che le statistiche sono solo numeri trascritti su un pezzo di carta. Perché una volta smesso di giocare conta solo quanti anelli puoi metterti al dito.
Robert Keith Horry Jr. è nato il 25 Agosto del lontano 1970 in una piccola cittadina di appena 250.000 mila abitanti chiamata Harford County, nel Maryland. Una città troppo piccola, un posto troppo sconosciuto per poter permettere ad un ragazzo di “fare carriera”. In seguito al divorzio dei suoi genitori si trasferisce nello stato dell’Alabama, dove frequenterà High School e college. Frequenta tutti e quattro gli anni all’università, quando una volta era un dovere morale concludere il percorso scolastico, e gioca in coppia con Latrell Sprewell: la squadra non sarebbe neanche tanto male, ma sono ancora tutti troppo acerbi. Il nome di Horry inizia però a circolare in sede di Draft e sono numerose le squadre disposte a spende la propria scelta per selezionarlo, grazie anche all’inclusione per riconoscimenti come il SEC All-Defensive.
Arriva la notte del Draft 1992 dominata dalla presenza di Shaquille O’Neal e Alonzo Mourning (rispettivamente prima e seconda scelta quell’anno), ma alla fine gli Houston Rockets decidono di chiamarlo con la scelta numero 11 del primo turno: le qualità principali del giovane Horry sono un discreto tiro dalla media/lunga distanza e delle capacità difensive davvero impressionanti per un giocatore si di 2.08 metri, ma con un fisico longilineo e magro.
Si capisce subito che Robert Horry non sarà mai un go to guy, non sarà mai un franchise player né un MVP, ma gli Houston Rockets gli affidano il quintetto nel giro di qualche mese e il suo ruolo di specialista sarà FONDAMENTALE perché, nella stagione 1994, il titolo vinto dalla squadra texana passa anche dalle sue mani: record per una partita di finale di playoff con 7 palle rubate e, qualche giorno più tardi, di triple realizzate in un solo quarto (cinque) di finale, of course. L’anno dopo la squadra si ripete e sotto coach Rudy Tomjanovic conquista il secondo titolo NBA consecutivo, battendo gli Orlando Magic.. di chi? Di Shaq ovviamente. Robert ha sempre dichiarato che questo, il secondo, è il suo titolo preferito per il fatto che i Rockets si erano qualificati alla postseason con il seed numero sei.
Purtroppo la situazione con la squadra in seguito ad alcune discusse trade iniziano degenerare e nell’estate del 1997 viene scambiato con i Los Angeles Lakers: è forse in questi anni che arriva la consacrazione definitiva per il nostro. Nei primi anni in maglia giallo-viola, dopo essere stato accolto con una standing ovation allo Staples Center, non riesce a trovare la sua dimensione, complice anche una serie di infortuni che gli farà perdere addirittura 82 partite. Con l’avvento del nuovo millennio però si reinventa come sesto uomo ed uscendo dalla panchina sarà uno dei principali segreti del successo dei Lakers nel triennio 2000-2001-2002: porta la solita ottima presenza in difesa, con un lavoro fondamentale lavorando soprattutto sul suo corpo, adattandosi così a giocare anche nel ruolo di power forward, in più un’indole a spezzare la partita che nessuno gli aveva mai visto prima. In questi anni la squadra di coach Phil Jackson è veramente troppo forte per chiunque: arrivano troppi record per essere citati in un solo articolo e il bilancio complessivo delle 3 Finals vinte dice 12 vittorie e solamente 3 sconfitte. A livello personale Horry vive il migliore momento della sua carriera e si guadagna il soprannome di “Big Shot Rob” grazie alla sua capacità di chiudere le partite nei momenti clutch: vedere per credere.
La stagione successiva sembrava destinata ad aggiungersi a quelle precedenti, se non fosse che si inizia a “sentire” i primi scazzi tra Kobe e Shaq: usciti alle finali di conference contro i San Antonio Spurs, il protagonista di questa storia nella stagione successiva si accasa proprio in Texas, alla corte di Tim Duncan, Manu Ginobili e Tony Parker. Durante la free agency sono state tante le squadre a contattarlo, ma la scelta finale era ricaduta su un possibile ritorno di fiamma con Houston o appunto gli Speroni. A 33 anni ormai compiuti Big Shot Rob è un giocatore di esperienza e di carattere: proprio come piacciono a Gregg Popovich, che ha avuto un ruolo fondamentale nel reclutarlo.
Nelle finali del 2005 affrontano i Detroit Pistons e in una serie tirata, risoltasi solamente a gara 7, Horry mette di nuovo il suo marchio di fabbrica con uno dei canestri decisivi. E’ ancora un mistero sul perché Rasheed Wallace abbia deciso di lasciare libero un giocatore di questo livello in un possesso decisivo. Manu Ginobili ha dichiarato nel post partita: “quando Rob ha ricevuto palla dopo il mio passaggio ha quasi fatto un ghigno verso Sheed come per dire: me? Lasci me così libero?”
Tripudio.
Sempre con i San Antonio Spurs vince il titolo nella stagione 2006-2007 e con questo successo diventa una vera e propria leggenda: è il nono giocatore ogni epoca a vincere sette titoli NBA, ma soprattutto l’unico che non fa parte dei Boston Celtics dell’era Russell. Inoltre è l’UNICO GIOCATORE DELLA STORIA ad aver vinto un titolo NBA con tre diverse franchigie. Un giocatore che sapeva emozionare il pubblico, i tifosi e i giornalisti, di grande compagnia e che in spogliatoio sapeva divertirsi e far divertire. Il classico compagno con il quale speri di non doverti separare mai. MAI.
Ha dimostrato di essere uno dei primi esemplari di strech-four, perché con l’avanzare dell’età il suo fisico, che atleticamente parlando era discreto nei suoi primi anni ai piani alti, ha finito per impedirgli di tenere difensivamente il passo delle small forward. Inoltre sapeva anche stare davanti alla telecamera (che derivi dalla sua tremenda somiglianza con Will Smith?). Aveva cominciato la sua carriera come specialista difensivo, salvo poi imparare ad essere un giocatore di sistema adattabile a qualsiasi situazione e contesto, con una capacità di clutching forse mai vista. E che mai più si vedrà.
Purtroppo la vita gli ha fatto uno brutto scherzo, donandogli una figlia affetta da una gravissima malattia che, nel giugno del 2011 è morta all’età di 17 anni. Robert ha reagito come solo lui sa fare: con un sorriso.
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